Triduo Pasquale – Il Venerdì Santo

Il Venerdì Santo è il giorno in cui la Chiesa contempla la Passione e la morte di Cristo sulla croce. In questo capitolo, P. Giorgio Bontempi C.M. ci accompagna attraverso l’evoluzione storica e liturgica di questa celebrazione, svelandone la profondità teologica e spirituale. Un momento unico per meditare sul mistero della salvezza e sull’amore senza misura del Crocifisso.

Formazione ed evoluzione

È verosimile che per la Chiesa antica anche il Venerdì Santo abbia costituito un giorno di celebrazione liturgica. Per conoscere una sua celebrazione più ampia dobbiamo attendere i dettagli riferiti alla testimonianza di Egeria (o Eteria) (cfr. Dizionario patristico e di antichità cristiane, I, Casale Monferrato, 1983, col. 1108), del IV secolo, dettagli che avranno un influsso determinante sulla liturgia romana. Fino allora l’elemento centrale della celebrazione del Venerdì Santo era costituito dalla celebrazione della parola. L’ordinamento di tale liturgia offertaci da Giustino nella sua I Apologia è stato ripreso dalle diverse liturgie, modificandone questo o quell’aspetto secondario. Abbiamo qui il nucleo primitivo della nostra liturgia della parola, ricalcata, nelle sue linee fondamentali, sulla celebrazione ebraica del mattino del sabato[1].

La prima parte della celebrazione del mattino del Venerdì Santo ha conservato tale struttura tranne alcune varianti: letture, canti, omelia, orazioni solenni, una delle forme della cosiddetta preghiera universale odierna.

Sembra che l’antica struttura contemplasse una prostrazione del vescovo che, nel frattempo pregava in silenzio, una prima lettura seguita da un Tractus, una seconda lettura, il canto della Passione, infine le Orazioni solenni (la nostra preghiera universale nella sua forma più ampia)[2] Per questo certi Ordines ci offrono l’esempio di un’analoga struttura[3].

Altrove tuttavia ci si comporta in modo diverso, ossia la celebrazione segue un altro schema: dopo la prostrazione il celebrante dice un’orazione, quindi si ha la prima lettura seguita da un’altra orazione[4]

Esiste ance un’altra struttura: dopo la prostrazione, il celebrante recita un’orazione e si da quindi inizio alle letture senza orazioni. È la struttura ce è stata scelta nell’Ordo attuale del Venerdì Santo. Le Orazioni solenni così come ci vengono presentate dal Sacramentario Gelasiano sono state conservate fino alla recente riforma che ne ha introdotte di nuove e trasformate altre.

Ma, come si è detto, la liturgia romana subirà l’influsso del racconto fatto da Egeria nel suo Itinerarium (o Pelegrinatio ad loca sancta) del IV secolo. Nel suo diario, essa descrive ci che accade il Venerdì Santo a Gerusalemme dove si venera la croce di Cristo.

…Si pone una cattedra per il vescovo dietro la Croce, dove egli si trova in quel momento. Il vescovo siede sulla cattedra, davanti a lui si mette un tavolo coperto da un telo di lino, i diaconi sono in piedi intorno al tavolo: viene portata una cassetta d’argento dorato in cui c’è il santo legno della Croce, la si apre e la si espone. Si mette sul tavolo il legno della Croce e la apre e la si espone. Si mette sul tavolo il legno della Croce e l’iscrizione. Dopo averli posti sul tavolo, il vescovo stando seduto appoggia le mani alle estremità del sato legno e i diaconi, in piedi tutt’intorno, sorvegliano. Il motivo della sorveglianza è questo: è usanza ce ad uno ad uno tutti quanti si avvicinino, sia i fedeli sia i catecumeni, e chinandosi sul tavolo bacino il sato legno e poi passino avanti: ora, si narra che, non so quando, un tale con un morso abbia portato via un frammento del santo legno: per questo motivo i diaconi che stanno all’intorno, fanno attenzione che qualcuno, venendo vicino, non osi ripetere quel gesto. Così tutti quanti sfilano lì dinanzi ad uno ad uno: si chinano, toccano prima con la fronte poi con gli occhi la Croce e l’iscrizione, poi baciano la Croce e passano oltre, ma nessuno la tocca con le mani[5]

A Roma, dove si conserva una parte del legno della croce, prese piede l’usanza di una venerazione simile a quella descritta da Egeria[6]. Solo con l’Ordo XXIII (700-750), però, abbiamo un’ampia descrizione, dovuta ad un pellegrino, del rito della venerazione della croce nella Città Eterna. Benché la liturgia ispanica , nel VII secolo, attesti una venerazione della croce ereditata senza meno da Gerusalemme, Roma non dipende da essa nel suo rituale. La descrizione che ne dà l’Ordo XXIII è invece assai simile a quella narrata da Egeria[7]. L’influsso orientale è evidente: ad esempio, è il papa stesso che porta il turibolo fumante durante la processione, usanza codesta del tutto sconosciuta a Roma. Nel momento in cui il rito della venerazione entra nella liturgia romana, sono orientali i papi che occupano la cattedra di Pietro: da Giovanni V (685-686) a Zaccaria (741-752)[8]. A Roma, inoltre, la venerazione della croce precede la liturgia della parola, proprio come viene riferito da Egeria[9].

I libri liturgici non segnalano alcun canto di ringraziamento per la venerazione della croce, consoni ance in questo con il diario di Egeria. A partire dal secolo VIII e IX, il corteo che si forma per la circostanza è accompagnato da un canto, quello dell’antifona Ecce lignum crucis con il Salmo 118[10]. Altre antifone verranno poi aggiunte alla salmodia, ad esempio Salva nos Christe e, in particolare, Crucem tuam adoramus, antifona di origine bizantina, nota ad Alamario di Metz (775 ca. 858 ca.) [11]. Nel Ordo XXXI nel 850-890 al Salmo 118 e all’antifona Ecce lignum crucis viene aggiunto anche l’inno Pange lingua (composto da Venanzio Fortunato [† 600 ca.] con il versetto Crux fidelis.

In questi libri liturgici non si fa parola dell’uso né si velare né di svelare la croce. L’origine e il significato di tale uso sono oscuri, anche se è facile intuire la drammatizzazione che comporta lo scoprimento del legno sacro. Questa consuetudine appare soltanto con il Pontificale Romano del XII secolo

 

Nota sulla comunione nel Venerdì Santo, prima e dopo il secolo VII

La comunione in tal giorno, non compare a Roma prima del VII secolo. Ne fa fede la celebre lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, Decenzio[12]. Nell’Ordo XXIII (700-750), troviamo una interessante rubrica: né il papa né i vescovi comunicano il Venerdì Santo. Chi intende comunicare deve farlo consumando ciò che è stato conservato dell’eucaristia celebrata il giorno precedente, cioè il Giovedì Santo. Chi non vuole comunicare in tal modo può recarsi nelle altre chiese di Roma[13]. Siamo in presenza di una duplice consuetudine. Ma nella liturgia romana di allora ci si comunicava sotto le due specie. I documenti più antichi menzionano in termini espliciti la riserva del pane e del vino consacrati. Alcuni documenti posteriori che paiono di origine franca, ricordano la riserva del solo pane consacrato, ma parlano nel contempo della commistione silenziosa del pane consacrato con il vino non consacrato. Questa mescolanza del pane e del vino si basava su una convinzione teologica. Non era facile conservare fino al Venerdì Santo del vino consacrato il Giovedì. Ora, per la comunione ordinaria dei fedeli, si usava versare del sangue santo in un calice già pieno di vino non consacrato. Verso l’800 nacque l’idea che, mescolando pane consacrato a vino non consacrato, quest’ultimo venisse consacrato per contatto. Alamario di Metz da testimonianza di quest’uso[14]. Si porta dunque all’altare il pane consacrato la vigilia e un calice colmo di vino. Vengono deposti sulla mensa e incensati. Poi il celebrante canta il Pater. L’ostia viene allora divisa in tre parti e la terza è deposta nel calice, in silenzio.  Il Pontificale del XII secolo ricorda che il vino non consacrato è consacrato per contatto dal pane consacrato. All’inizio del XIII secolo questa teoria è confutata, ma questa credenza era durata per quatto secoli. L’Ordo papale del XIII secolo segnala a quell’epoca che solo il pontefice comunica il Venerdì Santo[15].

Fino alla riforma del 1055 solo il celebrante potrà comunicare, ma il rito di immissione verrà sempre praticato senza per questo cedere alla consacrazione del vino.

 

La celebrazione del Venerdì Santo, oggi

 

Sopprimendo l’immissione, la riforma del 1955 aveva tuttavia introdotto la comunione dei fedeli. Per il resto aveva conservato la maggior parte degli usi precedenti. Con il Vaticano II questa liturgia ha subito importanti modifiche.

La celebrazione era già stata fissata al pomeriggio dall’Ordo precedente. Questa disposizione fu conservata. Si sarebbe potuto decidere di celebrare la liturgia della parola al mattino e di fissare al pomeriggio l’adorazione della croce e la comunione. Ma motivi pastorali più che comprensibili non consentirono questa innovazione; è difficile impegnare le persone a riunirsi due volte lo stesso giorno per due celebrazioni. Si era anche pensato di togliere la comunione ai fedeli e di ritornare all’antica tradizione. Ma la comunione dei fedeli il Venerdì Santo era stata appena istituita dalla riforma del 1955.

La riforma del Vaticano II ha introdotto:

all’inizio della celebrazione un’orazione a scelta;

la scelta delle due letture oltre alla Passione, in cui emerge la figura del Cristo sofferente, condotto al macello come pecora muta, carico di tutti i nostri peccati, causa della nostra giustificazione.

Ance le rubriche sono state modificate: colui che presiede indossa i paramenti di colore rosso, segno della regalità di Cristo, invece che usare il colore nero. Ancora, la presidenza della Preghiera universale (=Orazioni solenni) può essere disposta alla sede, all’ambone o alla mensa. Queste, a seconda delle situazioni di vita in cui la Chiesa locale si trova, possano essere aggiunte a discrezione o della singola conferenza episcopale o anche dell’Ordinario del luogo.

Per la seconda parte della celebrazione è stata introdotta la venerazione della croce accanto all’antica usanza di mostrare ai fedeli la croce, svelandola progressivamente al canto tre volte ripetuto, dell’Ecce lignum crucis. Un’altra forma di ostensione della croce è altresì proposta: dal fondo della chiesa il celebrante o il diacono, portando la croce svelata, canta l’Ecce lignum crucis. Lo canta tre volte avanzando man mano verso il presbiterio, ripetendo così lo stesso rito adottato per il lumen Christi.

Per la comunione (terza parte) si adotta l’Ordo Missae dal Padre Nostro in poi.

P. Giorgio Bontempi C.M.

[1] GIUSTINO, I Apologia, LXVII, Paoline, Roma, 1983, 117 – 119.

[2] La storia di queste orazioni è complessa. Vedere P. De Clerck, Le piére univèrselle dans les liturgies anciènnes. Temoinagès patristiques et textes liturgiques, Munster, 1977.

[3] Ad esempio, gli Ordines XVI; XVII; XXIII; XXIV e XXXB, che datano dalla fine dell’VIII secolo e alcuni sacramentari della stessa epoca. Cfr. H. SCMIDT, Hebdomanda Sancta, II/2, Romae – Freiburgi, Br. Barcinone, 1957, 778 ss.

[4] Diversi sacramentari testimoniano di Quest’uso, ad esempio, il Sacramentario Gelasiano.

[5] EGERIA, Diario di viaggio, Milano, 1999, 96 – 97

[6] H. GRISAR Il «Sancta Sanctorum» in Roma e il suo tesoro nuovamente aperto, «La Civiltà Cattolica», 52/2 (1906) 513-544; 708-730.

[7] Le Liber Ordinum es usage dans l’Eglise wisigothique et mozarabe d’Espagne du V au XI siècle:  ed. M. Ferotìn, Paris, 1904, coll. 192 ss. ; M. ANDRIEU, Les Ordines romani …, cit.., nrr. 9-22 (Ordo XXIII).

[8] H. SCHMIDT, op. cit. 791.

[9] EGERIA, Diario di viaggio, Milano, 1999, 96 – 97

[10] M. ANDRIEU, Les Ordines romani…, cit, nr. 35, p. 294 (Ordo XIV).

[11] ALAMARIO DI METZ, Liber Officialis, I, 14.

[12] INNOCENZO i, Lettera 25 a Decenzio di Gubbio: PL 20, 555-556.

[13] M. ANDRIEU, Les Ordines romani…, cit, 272 (Ordo XXIII

[14] ALAMARIO DI METZ, Liber Officialis, I, 15..

[15] Triduum Sacrum, ed. Adrien Nocent, in Anàmnesi 6, L’Anno Liturgico, Genova, Marietti, 1989, 108-109.

 

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