Padre Giovanni Battista Manzella ha incarnato, in tutto il secolo scorso, un altissimo ideale sacerdotale e missionario, cui si ispirarono molti sacerdoti e religiosi. Infatti, la biografia che ne scrisse il Signor A. Sategna fu particolarmente diffusa anche nei Seminari italiani degli anni cinquanta, dove veniva letta comunitariamente soprattutto in occasione di ritiri spirituali.
Di questo grandioso «ideale sacerdotale» incarnato da lui si fece interprete lo stesso Giovanni Paolo II con le parole rivolte ai vescovi sardi nella prima visita ‘ad limina’ del 1981: » Non posso non ricordare l’opera assidua ed indimenticabile del Signor Manzella, l’apostolo della Sardegna, che catechizzò per circa quarant’anni, percorrendola in lungo e in largo: egli, prima come Direttore spirituale nel Seminario di Sassari, e poi nelle sue ‘missioni’, ebbe sempre come ideale appassionato l’amore e l’aiuto al clero, sostenendolo con la sua fede integerrima e con la sua opera infaticabile. E proprio l’intera esistenza del Signor Manzella dimostra quanto è necessaria la sintonia tra clero e religiosi nelle varie attività parrocchiali, diocesane e regionali e come è facile realizzarla, se si vuole, secondo le direttive del documento ‘Mutuae relationes’ .
Vocazione sacerdotale e vincenziana
Nacque il 21 gennaio 1855 in Soncino, caratteristico paese medievale della provincia di Cremona, e il giorno seguente fu portato al fonte battesimale nella chiesa parrocchiale di S. Giacomo, ricevendo i nomi di Bartolomeo Giovanni Battista.
Terminati gli studi tecnici, si unì al lavoro di materassaio del padre Carlo, prima in paese e, quindi, a Castello Brianza, sopra Lecco, dove si trasferì con i genitori nel 1875. Intanto il fratello minore Ezechiele era entrato nel Seminario diocesano di Cremona. Nel novembre 1880 il nostro Giovanni Battista trovò lavoro in questa città come commesso in un negozio di ferramenta. Quì imparò a conoscere San Vincenzo de’ Paoli soprattutto nell’esperienza caritativa della Conferenza Maschile di San Vincenzo.
Quando Ezechiele divenne sacerdote, finalmente anche lui, ormai ventinovenne, riuscì a entrare nell’Istituto Villoresi di Monza, dove venivano accolte le vocazioni adulte. Vi frequentò gli studi per tre anni. Ma il suo direttore spirituale lo indirizzò alla Congregazione della Missione: «Tu sei fatto per l’obbedienza; tu ti farai berettante» , gli disse. E fu profetico.
Il 2 novembre 1887 si presentò alla Casa della Missione di Torino e il 21 novembre fece la vestizione vincenziana nel Noviziato di Chieri. Qui si lasciò letteralmente plasmare dalle Regole di San Vincenzo, imperniate, quanto a formazione spirituale, sull’ascesi dell’umiltà, semplicità, mansuetudine, mortificazione e zelo per la salvezza delle anime. Nei sei anni di formazione al sacerdozio, progredì talmente in queste virtù, che, in seguito, tutta la sua vita e apostolato ne sarebbero rimasti caratterizzati profondamente, diventando una viva immagine del santo fondatore. In particolare, l’umiltà e la mortificazione l’avrebbero portato, fino a saper sopportare serenamente umiliazioni e anche calunnie, sull’esempio e alla scuola di San Vincenzo, scegliendo eroicamente di mai difendersi presso alcun superiore.
Ricevette l’ordinazione sacerdotale nella cappella del Seminario Arcivescovile di Torino il 25 febbraio 1893, ormai a 38 anni.
Macerato dall’obbedienza
I primi sette anni di sacerdozio lo videro impegnato quasi totalmente nella formazione dei giovani, lasciandosi macerare dall’obbedienza religiosa nei molteplici trasferimenti. Per otto mesi del 1893 fu Direttore della Scuola Apostolica di Scarnafigi (CN), quindi a Chieri (1893-1898) come Direttore dei Novizi. A Como (1898-1899) gli fu affidata la predicazione delle missioni al popolo; ma dopo due anni circa fu nuovamente trasferito a Casale Monferrato (1899-1900), direttore disciplinare ed economo del Seminario Diocesano. Qui i seminaristi acquisirono la consapevolezza di trovarsi dinanzi a un missionario santo.
Nel novembre 1900 fu trasferito in Sardegna, al Seminario Tridentino di Sassari, in qualità di Direttore Spirituale. Anche in questa circostanza il giudizio dei superiori maggiori esprimeva una qualche convinzione di santità della sua vita. Infatti, il Visitatore della Missione, P. Emilio Parodi, scrisse all’Arcivescovo Mons. Marongiu Delrio: «Questa volta le mando come Direttore Spirituale del Seminario il Signor Manzella, un santo missionario… non avrò mai a pentirmi di averlo mandato in Sardegna».
Nel 1904 intraprese anche la predicazione delle Missioni al popolo e l’anno seguente, ormai cinquantenne, vi fu destinato a tempo pieno insieme col Signor Antonio Valentino (1869-1946).
Nella predicazione al popolo
Le prime missioni gli avevano fatto capire il bisogno della predicazione nelle parrocchie. «Il popolo chiede il pane, ma non v’è chi glielo spezzi!», fu il suo commento amaro alla missione di Pattada (SS) del 1904, quando costatò l’ignoranza religiosa del popolo e il poco zelo dei sacerdoti nella predicazione. E intraprese con entusiasmo e dedizione questo ministero.
Concluso anche il superiorato della Casa della Missione di Sassari (1906-1912), riprese ancora l’attività della «predicazione a tempo pieno» ininterrottamente fino al 1926, quando fu nuovamente destinato al Seminario di Sassari, sempre in qualità di Direttore Spirituale.
Furono, questi, i 13 anni di un apostolato particolarmente intenso e proficuo, che lo fecero conoscere in tutti i ceti sociali della Sardegna: da Sassari alla Nurra, alla Gallura, al Logudoro, al Goceano, al Meilogu, fino a Bosa e Oristano, a Nuoro, alla Barbagia, e con frequenti puntate fino all’Iglesiente, in Ogliastra, al Campidano e a Cagliari.
E’ preziosa, in proposito, la testimonianza del Prof. Remo Branca: «Manzella lo incontravo dappertutto: ogni incontro una lezione definitiva. Chi come me ha visitato la Sardegna in ogni suo più remoto angolo, sa che l’Isola fu veramente conosciuta e visitata da tre uomini, i quali impiegarono dai quindici ai vent’anni per averne una visione precisa anche nei particolari. Il La Marmora, che studiandola sotto l’aspetto fisico e militare, ne diede immortale notizia in due opere monumentali: nel Viaggio in Sardegna e nell’Itinerario; il Bertarelli, che la frugò per 17 anni consecutivi per scriverne la nota Guida del Touring; ed infine Manzella che vi camminò sopra per 37 anni consecutivi. A parte il maggior numero di passi e di anni, dobbiamo ora proclamare, di fronte alla storia dell’Isola, che la Guida più sicura, per noi poveri pellegrini, l’ha scritta Lui, scrivendo di meno e camminando di più».
Apostolo infaticabile
«Andremo a convertire le genti!» era stato il primo sogno della sua giovinezza già nel negozio di ferramenta a Cremona. La formazione vincenziana del Noviziato, poi, l’avevano orientato alla «evangelizzazione dei poveri, specialmente delle campagne», dove maggiormente San Vincenzo aveva esperimentato l’ignoranza religiosa e l’abbandono da parte del clero, che invece si riversava numeroso nelle città. Aveva, infine, fatto suo l’invito accorato del suo fondatore: «Diamoci risolutamente a Dio, lavoriamo, lavoriamo, andiamo ad assistere i poveri campagnoli, che ci aspettano…».
Degno figlio di San Vincenzo, era consapevole che «chi dice missionario, dice uomo chiamato da Dio a salvare le anime, perché il nostro fine è di occuparci della loro salvezza, ad esempio di Nostro Signore Gesù Cristo, il solo vero Redentore… e Salvatore».
E Padre Manzella ne fece il suo programma sacerdotale. Così fu capace di spendersi, soprattutto nel ministero delle confessioni, perno delle missioni popolari, anche 20 ore su 24 con estrema disponibilità. Di giorno aveva inventato, nei tempi liberi dalla predicazione, di fare la «pesca a domicilio» in cerca delle «pecore smarrite» ammalate o anziane. La sera tardi, poi, era dedicata alle confessioni degli uomini, confessando anche fino alle undici e a mezzanotte. Per questo decideva, tante volte, che per quattro ore non meritava neppure andare a letto; e preferiva riposare, in spirito penitenziale e per il buon esito della missione, sul seggiolone o sulla sedia dinanzi al tavolino. In missione a Berchidda, una notte crollò letteralmente in un sonno profondo nel confessionale, che non si svegliò neppure quando fu portato dagli uomini sulla sedia fino in camera e lasciato lì in mezzo alla stanza.
Ma caratteristica delle sue missioni divenne anche la famosa trombetta, mutuata dal banditore che girava in tutto l’abitato per dare gli avvisi importanti. Fu detto «il trombettiere di Cristo» perché lo rese familiare ai bambini nei paesi, ma anche negli stazzi e ovili delle campagne sarde. Ancora oggi viene ricordato così dagli anziani, che lo incontrarono negli anni trenta, lui ormai sulla soglia degli ottanta:
«Ogni giorno Padre Manzella usciva in giro per il paese suonando una trombetta. Noi bambini allora uscivamo di casa e andavamo incontro a lui, ci attaccavamo alla lunga sottana e, facendo il trenino, ci faceva girare tutto il paese. Arrivati in chiesa, siccome non c’erano banchi, ci faceva sedere per terra. Lui ci diceva: ‘Bambini, fate i bravi che il Signore vi guarda, vi vuol bene e vi protegge!’. E così iniziava a farci pregare e ci faceva il catechismo».
Nei suoi scritti troviamo alcuni tratti significativi di questa spiritualità dell’apostolato.
– «In questi giorni, come in altri tempi, mi venne un pensiero che mi pare venga da Dio. Io dico che Gesù mi lascia nell’aridità, però opera lo stesso in me in altro modo. Io mi sento tanto amore per salvare le anime.
Lavoro da disperato, e non lo faccio né per farmi vedere, né per lode. Ma perché so che piace a Gesù. Mi vergogno di dirlo, ma molti miei confratelli non si sentono di sacrificarsi tanto. Chi mi dà tanta buona volontà e tanto sacrificio? Mi pare sia quel Gesù che mi nega un po’ di fervore.
In questi giorni ho confessato fino a capirne più nulla. Soltanto quando la testa non si prestava più, soltanto allora seppi dire di no a chi mi cercava.
Queste sono le opere di Gesù. Questo pensiero mi ha consolato. Ne ringrazio di cuore il buon Gesù. Faccia come vuole di me».
Evangelizzare in parole e opere
Altra sua caratteristica fu lo stile dell’apostolato. In un tempo fortemente segnato dal socialismo anticlericale, seppe realizzare in pieno il principio vincenziano dell’ «evangelizzare in parole e in opere». Così le missioni popolari manzelliane, finalizzate soprattutto ai sacramenti della Confessione e Comunione generale, si concludevano per lo più anche con la fondazione delle Dame della Carità e delle Conferenze di San Vincenzo, per poi proseguire con altre fondazioni: Asili Infantili, Orfanotrofi, o Associazioni particolari, come le Pietadine per combattere il funesto lutto sardo, le Società Cattoliche Operaie da contrapporre alle omonime di ispirazione socialista, l’Associazione della Dottrina Cristiana, ecc.
Soprattutto le numerosissime Confraternite della Carità, maschili e femminili, diedero alla Sardegna il primato nazionale di impegno caritativo nel 1923 e nel 1924. Come collegamento formativo per gli oltre 250 Gruppi di Dame della Carità, dal 1923 e fino al 1935, istituì il bollettino mensile «La Carità».
Anche in Sassari, numerose istituzioni assistenziali sono direttamente fondate oppure ispirate da lui: il Rifugio Gesù Bambino (1903), la Casa Divina Provvidenza (1910), l’Istituto dei Sordomuti (1911) e, nell’anzianità, l’Istituto dei Ciechi (1934). Nel Centro e Nord della Sardegna si rifanno a lui l’Orfanotrofio maschile di Bonorva per i figli dei combattenti (1915-1918), gli Orfanotrofi di Sorso (1918), di Tempio (1921) e di Olbia (1923), i Ricoveri per anziani di Ghilarza (1923), di Oschiri (1923), di Orotelli (1925), ecc.
Per questo fu giustamente considerato come il San Vincenzo della Sardegna per la sua grandiosa attività caritativa e seppe conquistare il cuore di tutti, credenti, massoni e socialisti.. Vero padre dei poveri, non sapeva mai negare loro l’elemosina, arrivando persino a donare loro le proprie scarpe!
Amico dei sacerdoti
Guida umile e sicura dei sacerdoti, sapeva incantarli ed entusiasmarli nella predicazione nei Ritiri spirituali, richiesto un po’ in tutte le diocesi, da Sassari a Iglesias e Cagliari. E questa sia ai cinquanta che agli ottant’anni.
«La sua fede risplendeva in tutta la sua persona, da tutto il suo comportamento. La sua figura ci portava a pensare a Dio. Lo ricordiamo tutti quando predicava: quanta unzione, quale fervore! Soprattutto i suoi occhi, i suoi begli occhi che splendevano di cielo, facevano intravvedere il tesoro di fede che albergava nella sua anima».
E Mons. Tedde nel 1949 aggiungeva: «Se talora egli aveva espressioni di estatiche tenerezze verso il Signore e verso la Vergine Immacolata, le circostanze della sua vita ci dicono che quelle espressioni, quei ‘momenti di paradiso’ riflettevano il termine di un tormento interiore, di una grossa battaglia intima per la vittoria completa e sincera sul proprio carattere con i sistemi ed i mezzi classici della più pura ascetica: preghiera assidua (passava lunghe notti a colloquio con Gesù Eucaristia) ed austera penitenza, che piegavano il suo carattere ad una modestia, semplicità, umiltà, obbedienza, e carità esemplare».
Vero amico dei sacerdoti, accettava volentieri qualsiasi predicazione nelle parrocchie, per le feste patronali oppure per Tridui di San Vincenzo, come animazione dei Gruppi delle Dame sparse ovunque nell’Isola. La sua vita ci appare sempre in movimento, sempre tra la gente, di paese in paese, capace di adattarsi a ogni ceto di persone. Così lo ricordava ancora Mons. Fraghì nel 1948:
«La sua missione non aveva limiti: in chiesa, nelle piazze, in treno o in carrozza, a cavallo o a piedi, dovunque sentiva la necessità di dare i tesori della fede a chi ne aveva bisogno. E si serviva di tutti i mezzi: della scienza teologica, che sapeva sminuzzare in modo mirabile; dell’astronomia, per cui sentiva grande passione; dei fatti di cronaca, che sapeva stralciare appositamente dai giornali; delle barzellette popolari che sapeva raccontare in modo gustoso, dei cartelloni figurati, dove c’era spiegato tutto il catechismo; e perfino dei giochi di prestigio, nei quali era diventato maestro: tutto serviva al suo cuore di apostolo per diffondere meglio la dottrina di Cristo».
Nei ritiri sovente si rifaceva alla centralità dell’Eucarestia nella vita sacerdotale:
«Sacerdoti! Gesù è nelle nostre mani. Io Sacerdote gli do la vita, lo chiudo nel tabernacolo. Egli non uscirà se non quando vorrà il Sacerdote. Il tabernacolo è sempre chiuso, in certi paesi anche la chiesa è sempre chiusa. Cosa sono le chiese? Le carceri di N.S.Gesù Cristo. Il Sacerdote è il custode. Egli lo fabbrica, lo custodisce, lo dispensa…».
In un altro ritiro presbiterale concludeva così la meditazione: «Tornando alle vostre case, andate dal Gesù del vostro paese, prima di entrare in casa. Vi inginocchiate davanti a Lui e ditegli: ‘Gesù, vi consolerò per l’avvenire. Non vi sarò più di pena ma di conforto. Vi porterò tante anime. Soddisferò il vostro infinito amore col darvi più anime che potrò…’. Cantiamo pure l’inno di ringraziamento al nostro Dio, al nostro Gesù, al nostro Amico, al nostro Fratello maggiore…».
Maestro di vita spirituale
Un aspetto tipico del suo apostolato fu anche la direzione spirituale di anime privilegiate, che si consacrarono a Dio in Istituti religiosi o nella vita secolare. Basti accennare alle Serve di Dio Edvige Carboni, Leontina Sotgiu e Madre Angela Marongiu. Dovunque passava, suscitava un particolare fascino per la vita spirituale intensa, che sovente sfociava nella vita consacrata. Era un autentico suscitatore di vocazioni. Quante suore e sacerdoti devono a lui la loro vocazione!
Le lettere, che indirizzava loro, esprimono tanti aspetti, tuttora poco conosciuti, della sua ricca spiritualità.
A Leontina scriveva: «Gesù dà ad ogni santo un carattere singolare e sarà la fisionomia che ci distinguerà nei cieli. Ricevi ciò che Gesù ti dà con rendimento di grazie. Lascia fare a Lui…».
E dalla missione di Castelsardo le scriveva nel gennaio 1914: «Lavoriamo, Figlia carissima, alla santificazione delle anime. Gesù lo vuole. Se una tua parola fa fede, perché non dirla? Se una tua lettera può edificare perché non scriverla? Non sarai tu contenta se in cielo troverai un numero maggiore di anime che cantano le glorie del Buon Dio? Il timore della superbia bisogna lasciarlo da una parte. Io lascerei di fare le Missioni, e nelle missioni di fare tutto quel che faccio. Alla buon’ora… Ne parleremo a Voce. Angela ha pure la sua missione. Prega che Dio compia presto i suoi disegni. Intanto fa già molto bene colle sue preghiere e private esortazioni. Prega per questa missione… Suonan le campane; tutto è finito anche per oggi (ore 5 mattina), attacchiamo il carro, devo andare in Gesù e Maria».
Grazie a questo epistolario, possiamo conoscere anche alcuni aspetti tipici della sua spiritualità mariana. Nel 1913, dalla missione di Perfugas ancora a Leontina faceva questa confidenza: «Quali sono i titoli che do io alla Santissima, Carissima speciosissima, buonissima Maria? E chi lo sa. Mi vuoi far fare la confessione generale? La faccio. A Leontina nulla si nega. Senti. Io penso alla Beata Vergine che, col suo Bambino in braccio, da Betlemme va a Gerusalemme. Io in quel mistero la contemplo buona, buona buona mi par di vederla. Celebrando la S. Messa, innalzo l’Ostia, la abbasso e la depongo sul corporale adagio adagio, come se fosse la Beata Vergine Maria che lo depone nella culla. E dico: ‘Mio Gesù, le mie mani sono immonde. Vi depongo sull’altare, come la Vostra carissima speciosissima amabilissima Madre vi deponeva nella culla’. Quando copro il Calice già consacrato, lo copro coll’amore con cui la bella buonissima amabilissima Maria copriva il Suo amatissimo Figlio. Io penso talvolta che se la Beata Vergine col suo Bambino fossero in una casa e minacciati, io starei fuori al vento alla pioggia a patire sonno e disagi mortali per tutta l’eternità per difendere la cara Immacolata Mamma del mio Signore. Dissi il falso? Mi pare di no».
Questo aspetto mariano della sua vita ha diversi ulteriori arricchimenti, che però ora non è il caso di approfondire.
Nel 1927 coronò ancora un suo antico sogno, radunando le prime Suore del Getsemani attorno alla confondatrice Madre Angela Marongiu (1854-1936). Egli pensò a questa nuova istituzione religiosa soprattutto come risposta al problema di tante giovani che, per coronare il loro ideale di vita consacrata, si recavano nel continente, dove però, in una cultura e ambiente diverso, non si sentivano più a loro agio e rientravano deluse nei loro paesi. Così le diede, in sintonia con la spiritualità di Madre Angela, una dupplice fisionomia: di attività apostolica e di vita contemplativa; un apostolato soprattutto fra le ragazze povere dei paesi, da inserire con dignità nel lavoro professionale, ma anche una spiritualità incentrata sull’Eucarestia e sulla Passione del Signore.
La morte di un santo
Nel 1934 ebbe ancora il trasferimento dal Seminario Turritano alla Casa della Missione di Viale Italia, nella segreta speranza di potersi dedicare maggiormente alla cura delle sue Suore; tuttavia veniva richiesto ancora in continuazione per la predicazione, sia al popolo che al clero.
Non potendo più contare sulla fermezza delle gambe, accettò volentieri di poter circolare col famoso ‘calessino’ trainato dall’asinello, sia in città che nei paesi limitrofi. Ed è questa l’ultima sua immagine scolpita nella memoria di tanti, tuttora viventi, che lo ricordano con venerazione.
La malattia che lo portò alla morte fu di soli dieci giorni: una emorragia cerebrale lo colse nel pieno della predicazione, togliendoli completamente la vista: non a Sassari, ma ad Arzachena, dov’era stato inviato per un triduo di preparazione alla visita pastorale.
Furono i giorni dell’apoteosi manzelliana: numerosissime le visite di cortesia, soprattutto dei poveri, tanto da doverlo sistemare nel parlatorio della casa. Tutti volevano salutarlo e ricevere da lui un ultimo messaggio: sacerdoti, suore, laici di ogni estrazione. «Sono l’uomo più felice del mondo!» fu l’ultima definizione che egli diede di se stesso, in quei giorni, rispondendo a un prete di Ozieri, venuto per fargli visita.
Morì il sabato 23 ottobre 1937, alle quattro del mattino, attorniato dai confratelli e dalle suore che lo avevano vegliato nell’agonia della notte.
Per la popolazione fu normale commentare che era morto «santo Manzella». Tutti, infatti, lo additavano così da anni, quando lo incontravano per le vie di Sassari e gli chiedevano una benedizione per il proprio bambino o ammalato.
Il plebiscito di stima e venerazione ebbe come momento culminante proprio la celebrazione solenne dei suoi funerali nella cattedrale di Sassari, il 24 ottobre 1937. In quella circostanza l’arcivescovo Mons. Arcangelo Mazzotti non poté fare a meno di eprimere pubblicamente quella che era già opinione generale della popolazione sarda, che lo aveva incontrato e stimato: «Senza affrettare od anticipare il giudizio della Santa Chiesa, noi tuttavia possiamo affermare che il Signor Manzella é un Santo».
La salma, fin dal 1941, venne traslata nella cripta della chiesa del SS.mo Sacramento, presso la Casa Madre delle Suore del Getsemani. E questa chiesa, voluta da lui e oggi in prossimità degli ospedali sassaresi, da sempre è meta continua di pellegrinaggio. In particolare, sono gli ammalati che vi si recano per raccomandarsi a lui prima del ricovero ospedaliero, ritornandovi, poi, a ringraziare della salute riacquistata.
La sua vita e il suo sacerdozio sono semplicemente stupendi per chi ha potuto in qualche modo conoscerlo. Ne è testimone ancora lo stesso Mons. A. Mazzotti, che nella commemorazione del 1947 usava queste espressioni: «Oggi, a dieci anni di distanza, la stima, l’affetto, la convinzione della santità del vecchio missionario è tutt’altro che sminuita. Il pellegrinaggio alla sua tomba è ininterrotto, la fiducia nella di lui intercessione ha un crescendo impressionante. Ieri la conferenza al salone dello Sciuti è stata un grande successo: la folla era tanta da non poter essere contenuta nella sala, e molti dovettero con dispiacere rinunziare a sentire il discorso commemorativo. Stamattina questa cattedrale riunisce tanta folla da ricordare quella che numerosissima intervenne ai funerali. Qual è il segreto di questa popolarità, di questa attrazione esercitata dalla figura del Signor Manzella? … E’ certamente la santità della sua vita».
Ogni anno, nella data di morte, si ricorda la sua figura sacerdotale e missionaria con una celebrazione particolare presieduta dal vescovo, alla quale la popolazione sassarese e dei paesi vicini partecipa sempre con una particolare frequenza e devozione, che oggi, dopo tanti decenni, diventa davvero impressionante e profetica. E’ il segno visibile dell’attesa fiduciosa del popolo sardo per la glorificazione di questo Servo di Dio, fattosi «da lombardo di nascita, sardo di cuore».