P. Ghebre Michael, C.M.


di P. Vincenzo Lazzarini, CM

L’“Abate Ghebré Michele”: con questo nome spesse volte San Giustino De Jacobis nei suoi scritti chiama il suo discepolo e martire Ghebré Micael. Lo ha sempre ammirato proprio così, quale monaco testimone dell’as-soluto di Dio e difensore della Sua Verità; proprio come San Michele, l’Arcangelo.

E infatti Ghebré Micael per tutta la sua vita ha ricer­cato la Verità, per immedesimarvisi e configurarsi ad essa. Nacque verso il 1791 a Nefsié o Dibò, contrada del villaggio Mertullè-Mariam, nome che deriva dal monastero della zona; l’insieme della località è nel Goggiam, regione centro-ovest dell’attuale Etiopia. Il padre di Ghebré Micael si chiamava Akilò (forse Achille) probabilmente erede di una lontana discendenza portoghese: infatti Ghebré Micael viene descritto dal De Jacobis di giusta taglia, di tem­peramento nervoso, rosso più che nero nel colorito. Da ragazzetto, vispo com’era, gli capitò presto di perdere un occhio, forse il sinistro (perché quando San Giustino lo ordinò sacerdote dovette dispensarlo da tale “irregolarità” canonica).

La scuola, presso il convento di Mertullè, frequentata da bambino e poi da ragazzo, inclinò la sua mente alla riflessione ed alla ricerca di convincenti motivi di vita. Per questo, all’età di 20 anni circa, si fece più addentro alla vita ed agli studi monacali, con notevole profitto; sarà sempre apprezzato come amante del sapere, versato in ogni genere di cognizioni e di studi del suo paese. Fu infatti grande professore di lingua (liturgia Ghe’ez) e del calcolo del calendario, nonché delle leggi monastiche della disciplina Orientale.

Col trascorrere degli anni, Ghebré Micael avvertiva un bisogno sempre più crescente di sicurezza nella Verità e nella Fede. I più disparati tipi di risposte e spiegazioni gli venivano presentati e proposti in una Abissinia agitata da molte Sette, tutte di tendenza monofisita (che rifiu­tavano, quindi, l’idea delle due nature, umana e divina, di Gesù). Tutte cercavano di interpretare a proprio favore le citazioni di molte pergamene dei Padri antichi, con l’intento di dare credito alle proprie dottrine. Ma Ghebré Micael scelse di formarsi una propria convinzione con una personale ricerca sulle fonti manoscritte nelle biblioteche degli antichi monasteri. Così scalò molte alture monastiche fino a Gonder. Qui si fermò una prima volta: e con l’esperienza già acquisita, incrementandola ed arricchen­dola, in pratica costituì una vera e propria scuola per più di un decennio (1826-1837). Tra i suoi alunni ci fu perfino il principe Iohannes, il quale si convertì al Cattolicesimo proprio durante il periodo dell’intransigente imperatore Teodoro (1854).

Verso l’anno 1838 chiuse la scuola, valutando più opportuno riprendere i suoi pellegrinaggi, di monastero in monastero, dirigendosi verso il Mar Rosso, con l’inten-zione di arrivare fino a Gerusalemme. Dall’alto del mona­stero del monte Bizen già intravedeva il Mar Rosso, quando gli avvenne di deviare momentaneamente verso il monastero di Gundé-Gundé. Qui strinse amicizia con l’abba Teclè Haimanot, nativo di Gualà: da questo incon­tro nacque un sodalizio che morì solo insieme a loro.

Nel settembre l840 scese al mare di Massawa; cercò un’occasione di imbarco e la trovò nell’incontro con Giu­stino De Jacobis; questi stava per incontrare nel Tigrai il Principe Ubié, dal quale riceverà l’incarico di guidare una ambasceria al Cairo per domandare al Patriarca della Chiesa Copta dissidente un Abuna (Vescovo) per l’Abis-sinia, giacché la sede era vacante da 12 anni. De Jacobis accettò alla sola condizione che l’ambasceria potesse recarsi anche a Roma, a fare visita al Papa. E nel gruppo della Deputazione prese posto anche Ghebré Micael.

Nel Diario e nelle Lettere di San Giustino De Jacobis è riportato l’incontro con la deputazione abissina per l’Egitto, ed è narrato anche il colloquio, avvenuto ad Adua nel gennaio 1841, tra Giustino e Ghebré Micael, appunto. Ne risulta una iniziale e naturale diffidenza, da parte di Ghebré Micael, per un prete cattolico; da parte di Giustino, certamente l’apprezzamento per la rettitudine e la semplicità d’indole di un uomo esemplare per l’in-nocenza della vita, immersa nella profonda preghiera.

Il viaggio al Cairo ebbe le tipiche difficoltà dei grandi viaggi di quel tempo. Ma al Cairo (30 aprile 1841), l’in-sensata scelta dell’Abuna per l’Abissinia fatta dal Patriarca fu per lui e per tutti gli altri una vera delusione. Al confronto, l’opportunità di raggiungere Roma costituì un’autentica e provvidenziale apertura di speranza. L’am-basceria partita da Alessandria, fermatasi in quarantena a Malta, raggiunse il porto di Napoli il 12 agosto e il giorno dopo Civitavecchia; di qui giunse a Roma. Gre­gorio XVI subito concesse udienza ai deputati abissini quali, poi, per tutto agosto visitarono i luoghi santi romani, commossi ed estasiati dall’accoglienza del Papa e dalla magnificenza e sacralità di Roma. Ritornati a Napoli, furono ricevuti dal Re Ferdinando e dalla Comunità reli­giosa di Giustino nella Casa Provinciale.

Proseguirono sulla via del ritorno, passando per Geru­salemme: ancora un pellegrinaggio di tre mesi, anche questo ricco di esperienze e profonde impressioni.

La verità della Santa Sede ed i luoghi toccati dal-l’Umanità del Cristo si riassunsero in un insieme di sen­timenti, che spinsero lo spirito di Ghebré Micael ad un profondo esame di coscienza; la cautela era forte, ma altrettanto grande era l’inevitabile ammirazione per l’ascendenza spirituale di Giustino De Jacobis. Questi, da parte sua, non volle aver fretta nel prevenire la Grazia.

Nel febbraio 1842 Ghebré Micael e la carovana lascia­rono l’Egitto per l’Abissinia. Prima della partenza Ghebré Micael si riconciliò con il suo Patriarca, trovando un compromesso in una formula di fede riassuntiva di tutte le altre nel paese e che l’Abuna Salama avrebbe dovuto propagandare da Adoua fino a Gonder. Cosa che, peraltro, non fece mai. Piuttosto da parte di Salama l’atteggiamento fu ostile: Ghebré Micael fu oggetto di avversione, impri­gionamento, e tentativi di avvelenamento. Ghebré Micael, intanto, di ritorno in Adua, dopo alcuni mesi di rifles­sione e di consiglio, il 2 maggio 1844, nelle mani di San Giustino volle definitivamente abiurare tutte l’eresie del suo paese.

Arrivato al culmine della sua laboriosa e sincera ricerca della verità, l’abba Ghebré divenne apostolo del cattolicesimo in Abissinia. Non si staccò più da Giustino De Jacobis che lo spinse in prima linea nella causa mis­sionaria. Insegna, discute, studia; rivede e corregge libri liturgici; traduce in lingua Ghe’ez testi di Dogmatica e Morale cattolica per lo studio nel seminario di Gualà (dicembre 1844) ove forma i seminaristi ed i preti con­vertiti a vita cristiana e sacerdotale.

Le minacce dell’Abuna Salama raggiungono Gualà, maggiormente quando viene scoperta in quel luogo la presenza di Monsignor Massaia che aveva proceduto anche a Sacre Ordinazioni (1847). Piovono le scomuniche e gli interdetti del vescovo eretico e ne viene fuori pro­prio una sommossa civile e religiosa. I cattolici si rifu­giano in Alitiena, mentre il De Jacobis deve prendere la via dell’esilio verso Massawa, dove verrà consacrato vescovo dal Massaia l’8 gennaio 1849.

Mentre la prima ondata persecutoria declinava, Ghebré Micael, insieme a due compagni, rientrò in Gonder di nascosto. Ma tradito da un prete apostata, viene messo ai ferri nelle prigioni dell’abuna Salama (1850). Tre mesi di sofferenza e poi la liberazione per ordine espresso del principe Ubiè presso il quale Giustino, abbandonando il suo esilio, presentò audacemente le sue richieste di inter­vento.

L’abate Ghebré Michele il 1º gennaio 1851 in Alitiena viene consacrato sacerdote da Giustino De Jacobis, dal quale viene inviato ad Halai, dove sta sorgendo un nuovo avamposto missionario; ma per pochi mesi, perché di nuovo la sua presenza viene richiesta a Gonder. Il suo arrivo risultò veramente fruttuoso, ma intanto su Gonder la comparsa del nuovo conquistatore Kassà (Teodoro II) scatenò una nuova persecuzione, in accordo con l’Abuna Salama. Ai due personaggi tutto dovè inchinarsi: forze politiche e settarismi religiosi, musulmani e protestanti. Di contro ebbero solo, impavido e sicuro, uno sparuto gruppo di eroici cattolici, sorretti da Ghebré Micael e da Giustino Vicario Apostolico.

Giustino giunse notte tempo a Gonder, ma con i suoi non poté tenersi nascosto a lungo; la loro residenza fu sorvegliata a vista già dal 13 giugno 1854 fino al 15 luglio seguente. In questo giorno i satelliti dell’Abuna ed soldati di Teodoro misero tutti in catene.

Giustino, nelle sue pagine, riporta un elenco di sedici persone imprigionate: tra essi compare il nome dell’abba Ghebré Micael. Ma questi viene subito separato dagli altri nelle carceri dell’Abuna e sempre più isolato: fu oggetto di percosse e torture, tra cui quella del Ghend. Per tutti i mesi seguenti sopportò interrogatori, battiture, fame e ri­gori di prigione. Sul finire di dicembre l’Abuna lo sotto­pose ad una violenta flagellazione e, in qualità di Abuna, rifiutandosi di ucciderlo, lo consegnò alle mani di Teodoro.

Il 14 marzo 1855, ancora tra interrogatori, minacce, percosse, flagellazioni, la collera di Teodoro sfiorò la bestialità inveendo sul Martire: questi, invece, dopo due ore di frustate subite, apparve rialzarsi rinvigorito e sano. Il 31 maggio fu condannato a morte, ma di fatto fu risparmiato e rimase in catene nell’ambulante carcere mili­tare, al seguito dell’esercito. Il suo corpo, ferito ed este­nuato, ancora per due mesi sopportò le marce, seguendo l’imperatore. Tanta resistenza fisica e morale impressionò talmente i soldati, che considerarono l’eroico martire come un San Giorgio redivivo. Morì il 30 luglio 1855, proprio il giorno della festa di San Giorgio nel calendario copto (23 di Hamlé).

San Giustino De Jacobis, in una sua lettera del 30 gen­naio 1856, così parlava al Padre Generale Etienne, della morte Ghebré Micael:

“Abba Ghebra Michele…, or ora morto nelle catene per la fede Cattolica, quest’ingegno Abissinese perspicace, colto, retto, esemplare sempre ed attivo…”.

Nella lettera del 4 gennaio 1856 ricorda che Ghebré Micael era stato ammesso, mentre era ancora in prigione, in Congregazione.

Papa Pio XI lo elevò agli onori degli altari il 3 otto­bre 1926.

 

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